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è giusto riservare solo a coloro che risiedono da un certo numero di anni nella regione l’accesso alle prestazioni dell’amministrazione regionale?

4 commenti

Secondo alcune proposte di legge, presentate in diverse regioni italiane, l’assegnazione degli alloggi di edilizia popolare, l’esercizio di determinate attività professionali (per es. i tatuatori), l’accesso gratuito a prestazioni sanitarie specifiche per le donne in gravidanza, la possibilità di ricevere “buoni-scuola” per iscrivere i figli alle scuole private, ecc. devono essere riservati alle persone che risiedono nella regione da almeno 15 anni.

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4 risposte a è giusto riservare solo a coloro che risiedono da un certo numero di anni nella regione l’accesso alle prestazioni dell’amministrazione regionale?

  1. Claudio V. scrive:

    Il criterio per l’assegnazione,l’accesso gratuito o qualunque altra prestazione di questo genere dovrebbe basarsi sul reddito innanzitutto(se poi la regione può garantirlo a tutte le persone di una determinata categoria ben venga!),in seguito si può parlare anche di un numero minimo di anni di residenza per potervi accedere(per evitare chi sfrutti queste prestazioni e poi cambi regione, oppure quelli che per questo motivo abbiano residenza e domicilio diversi per convenienza). In ogni caso 15 anni sembra esagerato e troppo restrittivo,invece 5-10 anni di residenza(non di solo domicilio, se diverso dalla residenza)sono già un requisito, e una garanzia,sufficienti.

  2. mariarosa scrive:

    Non sono d’accordo con questa proposta, anzi questa restrizione,poichè crea delle differenze di trattamento in generale tra cittadini e limita le possibilità di mobilità,pensiamo a chi è obbligato a spostarsi sovente per motivi di lavoro o studio e verrebbe penalizzato da una simile norma;non vorrei che queste nuove norme fossero un provvedimento per sopperire alla mancanza di fondi a fronte di bisogni sociali più diffusi a causa della crisi economica.

  3. m.rosaria scrive:

    Penso che le regioni,e le città, italiane dovrebbero porsi con un atteggiamento meno conservativo e più aperto al dinamismo, ai flussi delle persone, in un’ottica più “attrattiva e competitiva”: vale a dire se decidono o meno di fornire servizi facilitati anche a chi non è residente da un certo numero di anni diventano meta ideale di trasferimento. In Italia è diffuso un pregiudizio su chi si trasferisce, si pensa sempre soprattutto all’immigrazione più povera e meno qualificata e raramente al fatto che la mobilità internazionale riguarda anche individui altamente specializzati, innovativi e creativi che nell’accettare o cercare un lavoro altrove riflettono anche su quanto un luogo offre per esempuio in termini di servizi per le famiglie, di accoglienza, di offerta culturale. Certo che, specie in tempi di crisi economica e risorse limitate negli enti pubblici,vanno considerati dei criteri di accesso facilitato a servizi e prestazioni pubbliche, ma quello prioritario della residenza mi sembra una condanna alla stagnazione territoriale, a non crescere e a non evolversi.

  4. Chiara scrive:

    Non sono d’accordo perché è una proposta che rischia di penalizzare ulteriormente le persone più giovani o quelle costrette alla mobilità lavorativa. Bisognerebbe capire che non viviamo più nell’Italia dei “campanili” e del posto fisso ma nell’epoca delle migrazioni e della precarietà. Le famiglie costrette a trasferirsi per lavoro dovrebbero invece essere aiutate più delle altre nell’assistenza e nei servizi, perché vanno incontro a spese e difficoltà organizzative che chi è rimasto tutta la vita nella stessa città e può contare sull’aiuto di amici e parenti, sicuramente non ha.

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